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E così sia

E così sia – Testo e musica di Mario D’Alfonsop

Me lo ricordo molto bene. Avevo appena raggiunto la maggiore età (allora a 21 anni). Il piano era perfetto: avevo appena dato un altro esame alla facoltà di medicina e, con la complicità dei miei amici, avevo riempito un enorme zaino dell’aeronautica comprato al mercatino americano.

Dissi ai miei che sarei stato via qualche giorno. Non sono mai più tornato.

Per me era naturale andare via, anzi obbligatorio all’alba degli anni settanta. Il movimento studentesco era in pieno fermento e prometteva nuovi possibili orizzonti, ed inoltre una ragazza mi aspettava altrove.
È stata una scelta fondamentale per la mia vita, ma i miei non hanno mai compreso e tanto meno condiviso né la forma né le motivazioni di questo abbandono. Purtroppo allora ritenevo di non avere alternative alla fuga clandestina.
Oggi mi dico che ho fatto bene, ma in tutti questi anni ho portato addosso un pesante senso di colpa come una cicatrice nascosta.

Ecco perché ero pronto a subire la stessa sorte, lo stesso dolore, magari appena affievolito da una maggiore consapevolezza.

Così non è stato. La strada dell’indipendenza di mia figlia non ha prodotto sofferenza, ma solo una più forte coscienza del mio amore per lei e la certezza che la sua felicità è anche la mia felicità.

Sono stato fortunato.

Il sale della terra 

Il sale della terra
di Luciano Ligabue

“Voi siete il sale della terra; ma se il sale diventa insipido, con che cosa gli si renderà il sapore?” (Matteo, 5:13).

Ligabue ribalta l’immagine del Vangelo, che rimane tuttavia sullo sfondo rispetto al contenuto del testo della sua canzone.

Lui stesso ha dichiarato: “Il sale della terra parla di una crisi che non è solo economica, ma sociale e di comportamento. Ha a che fare con il bisogno di potere, con le conseguenze prodotte da chi vuole conquistare il potere ad ogni costo e ad ogni costo mantenerlo.

Questo sale dunque non è quello che dà sapore alla vita, ma è quello usato in passato per rendere sterile il terreno, qui simbolo dell’inaridimento della società in cui viviamo e dell’arroganza dei potenti.

Il sale della terra è anche il titolo di uno splendido documentario di Wim Wenders del 2014 (se ve lo siete perso cercatelo, ne vale la pena). Il film racconta l’esperienza artistica e umana del fotografo brasiliano Sebastião Salgado, attraverso le sue immagini in bianco e nero. Un’opera sullo splendore del mondo e sull’irragionevolezza umana.

Salgado denuncia con grande stile e precisione le questioni legate al territorio, la capacità dell’uomo di creare o distruggere, le storie di sopraffazione che l’economia impone.

Entrambi, Ligabue e Salgado, ognuno con il proprio linguaggio e con le proprie tecniche, ci invitano ad aprire finalmente gli occhi sul mondo e ad agire conseguentemente, per ritornare ad essere il sale della terra.

 

 

 

 

Foglie d’erba

Foglie d’erba – Testo e musica di Mario D’Alfonso

Il poema di Whitman rappresenta un universo, una sorta di paradiso perduto dal quale noi siamo stati cacciati, o meglio dal quale ci siamo (involontariamente?) allontanati. E ora, anche volendo, non ritroviamo più la strada.

Foglie d’erba è il luogo dei sensi, dell’attenzione e dell’intimità con la natura, compresa quella umana.

Il mondo di Whitman è il mondo delle percezioni e delle sensazioni, degli odori, degli umori, delle migliaia di stimoli che ognuno di noi sarebbe in grado di cogliere con tutta la loro forza primordiale, se non fossimo distratti dal fascino dell’apparenza che ci seduce giorno dopo giorno.

È quindi esaltazione del presente, è immedesimazione nel momento preciso che si sta vivendo.

Nel “Canto di me stesso” scrive:

Non ci fu mai più inizio di quanto ce n’è ora,
Ne più gioventù o vecchiaia di quanta ce n’è ora,
Ne vi sarà più perfezione di quanta ce n’è ora,
Ne più cielo o più inferno di quanto ce n’è ora. 

E allora ora, proprio adesso, è il momento di scegliere, di cominciare qualcosa di nuovo, di avviare un progetto di vita, ma anche di sentire con tutto se stesso la forza di essere vivi. Non c’è stato mai un momento migliore per farlo, né ci sarà in futuro.

Ma in realtà il tempo non esiste. Gioventù e vecchiaia sono concetti falsi, da dimenticare. Non devono diventare alibi per la non azione, perché comunque solo in questo momento possiamo dire di essere al massimo delle nostre possibilità, della nostra perfezione. Conseguentemente il nostro piacere e la nostra sofferenza sono solo quelli che possiamo provare ora.

Il resto è solo ricordo o promessa, non può darci il brivido dei sensi e non brucia sulla pelle.

La mia canzone che prende spunto da questi versi è dedicata a mia figlia e,  per il resto, vuole essere una sorta di decalogo, una guida per le sue scelte.

 

Money

Money – Pink Floyd

Nel 1973 c‘era la crisi economica, il razionamento del petrolio, i ragazzi del Sessantotto facevano i conti con le disillusioni della recessione e della guerra in Vietnam. La band inglese aveva perso Syd Barrett, socio fondatore e chitarrista prima di David Gilmour, uscito di testa e dal gruppo poco prima.

In questo clima pesante i Pink Floyd decidono di realizzare un album a tema, un concept, sui disastrosi effetti della vita moderna: nasce così “The Dark Side of the Moon”.
Money apriva il lato B dell’album, uscito appunto nel 1973, ed è forse il brano più celebre.

Autore della musica e del testo era il bassista dei Pink Floyd Roger Waters. Si dice che il denaro sia la radice di tutti i mali odierni, sosteneva Waters (come peraltro San Paolo), ma nessuno è mai davvero disposto a privarsene. Il testo è un ironico ma spietato attacco all’avarizia, al consumismo e in generale al denaro che, per inciso, è anche la radice di tutte le guerre.
“Un blues tagliente sulla dipendenza dell’uomo dal denaro, su quei sogni di filigrana che ci spingono a correre più forte fino a renderci peggiori” (da ilsole24ore).
Ironicamente Money è anche la canzone che ha fruttato i maggiori profitti alla band inglese. L’album ha venduto oltre 50 milioni di copie ed è rimasto nelle classifiche di Billboard per 741 settimane dal 1973 al 1988.
Il brano è particolare oltre che per gli effetti sonori presenti in apertura e chiusura, anche e soprattutto per le strofe nel tempo dispari di 7/4, alternate ad un tempo più comune di 4/4 dopo l’assolo di sax, e sottolineate egregiamente ed ostinatamente dal notissimo riff del basso di Waters:

 

 

Il video ufficiale della canzone descrive praticamente parola per parola il contenuto del testo. Il suo stile narrativo sconta i 44 anni che ci separano dalla sua realizzazione, ma rende decisamente comprensibile il messaggio.

 

Caramelle da una sconosciuta

Caramelle da una sconosciuta – testo e musica di Mario D’Alfonso

Tra presente e passato si intrecciano la voglia di cercare nuove esperienze e la paura di perdersi. Una continua oscillazione tra la fugace sensazione che in qualche luogo si trovi il paese dei balocchi e la costante tendenza al pessimismo della realtà.

Lasciarsi andare non è poi così facile, e certamente non bastano il te, la luna e i gatti per rinunciare alla propria corazza e affrontare il mondo accettando di essere semplicemente noi stessi, fragili e indifesi.

E più che mai questo conta nell’incontro l’altro: cosa si cela dietro la sua maschera? Quali sono realmente i suoi obiettivi? Sarà sincero, mi posso fidare?

E poi come mi vede? Che penserà di me? Avrei potuto vestirmi meglio. Peggio di così, oggi è una giornata no. Se solo avessi immaginato.

Questa canzone racconta la favola di un incontro possibile, in un universo di persone che sempre più difficilmente si incontrano davvero.

Vinicius de Moraes cantava nella sua Samba da Benção

“A vida é a arte do encontro, embora haja tanto desencontro pela vida. “

La vita è l’arte dell’incontro malgrado ci sia tanto distacco nella vita.

Sera di Gallipoli

Sera di Gallipoli

Pubblicata nell’album “Eppure soffia” del 1976, Sera di Gallipoli è stata composta da Alfonso Borghi, e interpretata magistralmente da Pierangelo Bertoli.

L’autore delle parole Mauro Degola, emiliano anche lui come Bertoli, aveva svolto il servizio militare nella cittadina jonica, e nel testo racconta del senso d’abbandono, del legame della gente con il mare, dell’amicizia destinata a resistere alla distanza di chi se ne va.

Andare via. Prendere un biglietto di sola andata per altrove. Io l’ho fatto. Altri l’hanno fatto, qualcuno è rimasto.

Sopraffatto da un malessere che aveva raggiunto la maggiore età insieme a me, zaino in spalla, sono partito per non tornare, lasciandomi alle spalle la famiglia, la ragazza e gli amici.

Inseguivo un sogno e mi sentivo pronto ad accettare sfide nuove in un ambiente finalmente ricco di possibilità.

Per tutta la vita ho considerato gli anni passati a Bari, la città dove sono nato come un’esperienza da superare.

Oggi che le condizioni di salute di mia madre mi portano a ritornare lì più volte l’anno, cambiato io, cambiata la mia città, riscopro una sensazione che non avrei mai immaginato di poter provare. Io la chiamo “riconciliazione”.

 

Ortica

Ortica – Testo e musica di Mario D’Alfonso

Il vuoto di una casa che è stata teatro di un separazione. Un amore eterno durato un anno. La passione giovanile e i progetti di una vita felice insieme, ridotti in cenere da una convivenza forse un po’ prematura a 20 anni.

Lei ha portato via tutto. Le stanze che ci hanno visto tante volte ridere sono ora un luogo deserto e silenzioso. Abitato da ombre. Vorresti andare via e ricominciare da un’altra parte ma qualcosa ti trattiene, forse l’eco lontana della sua voce.

Pensieri tetri ti accompagnano per giorni e semplicemente non hai voglia di fare niente, incalzato dai ricordi dolci e amari che ti scavano dentro.

Poi arriva il giorno che trovi la forza di liberare la mente da quegli “imballi vuoti” e così smettono di fare male.

Non sono più ricordi. Non sono mai stati. E ricominci.

Big Girls Don’t Cry

Big Girls Don’t Cry
Frankie Valli and the Four Seasons

1962: al Festival di Sanremo vincono Domenico Modugno e Claudio Villa con “Addio, addio” e Milva si piazza seconda insieme a Sergio Bruni con “Tango italiano”.

Nello stesso anno in Inghilterra esce “Love Me Do” il primo singolo dei Beatles (sul lato B “P.S. I Love You”), con l’armonica a bocca blues suonata da John Lennon, a cui segue la strofa cantata da McCartney e Lennon insieme.

Oltreoceano Frankie Valli e i Four Seasons nel 1962 scalavano le classifiche con “Big Girls Don’t Cry” .

Frankie Valli (Francesco Stephen Castelluccio) nato da una famiglia italiana e cresciuto nella malfamata periferia di Newark, New Jersey, aveva poi abbandonato il mestiere di barbiere per dedicarsi alla musica.

Prima che i Beatles invadessero gli U.S.A. nel 1964, i Four Seasons comandavano le classifiche americane. Unico gruppo americano ad essere riuscito nell’impresa di piazzare 3 canzoni consecutivamente al primo posto nelle classifiche americane, mettendo in luce lo “stratosferico falsetto” di Valli.

L’influenza Rhythm & Blues nella loro musica era grande, tanto che alcuni dei loro primi singoli avevano raggiunto il successo grazie al pubblico di R&B; ai loro esordi alcuni ascoltatori pensavano che i Four Seasons fossero afroamericani.

Nel 2014 Clint Eastwood racconta le vicende e la straordinaria ascesa dei quattro ragazzi che provenivano  dal lato sbagliato della strada nel film “Jersey Boys” (che consiglio di vedere se non l’avete già fatto).

Per me il loro sound italo-americano è come un bagno di giovinezza: mi riporta alla leggerezza, alla spensieratezza e alla voglia di vivere dei miei 12 anni. È come entrare in una macchina del tempo.

Love Pretender

Love Pretender
Testo e musica di Mario D’Alfonso

Qualcuno finge di amare, qualcuno ama davvero con tutto se stesso.

Quando si incontrano uno dei due è destinato a farsi male. Il presente diventa dolce e amaro, il futuro è una terra da dimenticare.

Ciò che per uno è forza vitale, energia quotidiana, senso di armonia e di riconciliazione con la vita, per l’altro è solo desiderio soddisfatto, vanità, passatempo provvisorio, declinazione del potere personale.

Allora ogni momento insieme va vissuto intensamente per poi trattenerlo al caldo del ricordo dei giorni e delle notti solitarie, quando più nel profondo ferisce l’assenza.

Non c’è salvezza nel restare, manca la spinta per andare.

Si sta. Si aspetta l’ineluttabile. Non vorremmo crederci, ma con una interminabile fitta al petto, ci si convince che è proprio così.

E si fa strada una dolente propensione all’abbandono che il pianoforte esprime e alla quale la musica dà conforto.

Non è nel cuore

Non è nel cuore

Non è nel cuore – di Eugenio Finardi

La prima volta che ho visto e ascoltato Eugenio Finardi è stata a Parma nel 1972. Introduceva un concerto dell’allora più famoso Francesco de Gregori. Mi è piaciuto subito per la sua carica rock e per la semplicità e l’onestà dei suoi testi e della sua musica, che bene si inquadravano all’interno del suo impegno politico, ne costituivano, per così dire, il motore. Finardi nei 40 anni successivi si è mantenuto fedele alla sua onestà culturale non esitando a spaziare con la sua musica verso orizzonti diversi e lontani arrivando fino al genere classico contemporaneo.

“Non è nel cuore”, pubblicata come 45 giri nel 1976, è contenuta nello splendido album “Diesel” dell’anno successivo, che contiene un po’ una summa della sua poetica e delle sue posizioni antagoniste alla società di allora (e tanto più di adesso).

Nata nel periodo della contestazione generale in cui noi giovani inneggiavamo all’amore libero, la canzone di Finardi (più giovane di me di 2 anni) dimostra una grande maturità nel trattare il tema (abusato e spesso svilito) dell’amore. Parla ai suoi coetanei come un fratello maggiore, mettendoli in guardia dal confondere il sesso con l’amore: “non può esistere l’affetto senza un minimo di rispetto”,”l’amore è fatto di gioia ma anche di noia”.

Questa canzone mi piaceva a 26 anni e continua a piacermi a 66.

 

 

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