Incontro
di Francesco Guccini
Sul Web, Francesco Guccini, nel corso di un’intervista, analizza il testo della sua canzone. A lui la parola:
“Incontro”, più che una canzone malinconica, è tutto sommato una canzone ironica, nata dal fatto che a Modena c’era una mia amica che tra tutte le ragazze che conoscevo era la più emancipata. Aveva una madre e una nonna inglesi e si favoleggiava molto sulle sue origini. Malgrado avesse un nome italianissimo, per tutti era la Betty. Questa ragazza, con la quale non c’era stato niente di più che un’amicizia, quando avevo diciassette anni mi disse una frase che mi colpì: – Ti rendi conto che io ho ormai sedici anni e non ho ancora scopato? Magari domani muoio e non ho mai scopato -. Questa frase mi fece un certo effetto, perché devo confessare che neanche io a diciassette anni avevo mai goduto di questa leccornia. Sempre di lei mi ricordo che le coprivo alcune uscite. Le cose andavano così. La Betty mi telefonava e mi chiedeva di andarla a prendere la sera. Questo voleva dire che io mi presentavo in famiglia e dicevo: – Buonasera signora, lascia venire la Betty fuori con me? Uscivamo, e svoltato l’angolo c’erano dei maschi altissimi con delle spalle enormi che l’aspettavano. Io, insomma, ringraziavo e andavo via. Poi ci siamo persi di vista e dopo quindici anni mi ha telefonato per raccontarmi la sua tristissima storia.
E correndo mi incontrò lungo le scale
quasi nulla mi sembrò cambiato in lei
Questi versi sono bassamente romantici, lo devo ammettere. Ovviamente non è vero che ci siamo incontrati con lei che mi correva incontro lungo le scale. Però tutto sommato era carino, sembrava la sequenza di un film di Lelouch al rallentatore…
la tristezza poi ci avvolse come miele
Questo è un verso che mi piace moltissimo. Nasce da Suzanne di Leonard Cohen, quando dice «Il sole si riversa come miele». Nella mia canzone l’immagine del miele l’ho usata non come un elemento di dolcezza, ma come qualcosa che si appiccica addosso.
per il tempo scivolato su noi due.
L’andare indietro nel tempo, piangendosi addosso, dicendo – Ti ricordi…
Il sole che calava già
rosseggiava la città
«Rosseggiava» è discutibile, probabilmente c’era la necessita di riempire un certo buco metrico e in quel momento non è venuto fuori altro.
già nostra e ora
straniera e incredibile e fredda;
E qui va bene. Si parla di Modena, ovviamente, che allora era il nostro centro vitale. Poi è diventata un città diversa, una città che non si riconosce più.
come un istante déjà vu
ombra della gioventù
Potrebbe sembrare un verso troppo facile, invece è molto sincero. Perché abbiamo avuto tutti dei momenti che ti sembra di avere già vissuto. Ovviamente se tu scrivi «déjà vu» poi devi trovare una rima, allora è saltato fuori «ombra della gioventù».
ci circondava la nebbia.
La nebbia è una presenza.
Auto ferme ci guardavano in silenzio
È un verso che può andare bene, anche se non è molto audace.
vecchi muri proponevan nuovi eroi
Anche in “Giorno d’estate” c’è una frase più o meno simile, quindi si vede che è un mio cliché che ogni tanto salta fuori. Riguardo agli eroi, volevo dire che all’età di sedici-diciassette anni avevamo un certo tipo di miti come James Dean, i Platters o Elvis, che poi sono completamente cambiati. Mi piaceva l’idea di sottolineare il passaggio di tanti anni attraverso il segno di questi miti differenti.
dieci anni da narrare l’uno all’altro
ma le frasi rimanevan dentro in noi.
«Narrare» può andar bene, c’è anche una ragione metrica.
«Cosa fai ora? Ti ricordi?
Eran belli i nostri tempi!
Ti ho scritto è un anno
mi han detto che eri ancor via».
Qui non c’è proprio niente da dire, è la riproduzione di un dialogo.
E poi la cena a casa sua
la mia nuova cortesia
stoviglie color nostalgia.
Innanzitutto è bene spiegare perché «la nuova cortesia». La famiglia della Betty apparteneva a un ambiente sociale più alto del mio e aveva una casa molto più bella della mia. Tutto questo mi intimidiva molto, anche perché a quell’età non avevo certo una coscienza critica molto sviluppata. Trascorsi quindici anni da allora, ovviamente guardavo le cose in maniera diversa e la mia timidezza di quegli anni mi sembrava assolutamente ridicola. Ecco il perché della «mia nuova cortesia». Per quanto riguarda poi «le stoviglie color nostalgia» devo ammettere che ho rubato questo verso a Gozzano, un poeta che amo molto. Il verso in questione l’ho tradotto da La signorina Felicita ovvero la Felicità, quando dice: «E gli occhi fermi, l’iridi sincere | azzurre di una azzurro di stoviglia». Questa immagine mi era piaciuta. Mi ricordava di quando ero bambino in montagna e mangiavo in piatti di terracotta molto grossi che erano tutti ricamati in azzurro.
E le frasi quasi fossimo due vecchi
rincorrevan solo il tempo dietro a noi
per la prima volta vidi quegli specchi
capii i quadri i soprammobili ed i suoi.
Per «i suoi» intendo i genitori. Qui mi ricollego ancora al discorso della «mia nuova cortesia».
I nostri miti morti ormai
la scoperta di Hemingway
La mia generazione è figlia di quella dei Vittorini e dei Pavese, che hanno tradotto e diffuso un certo tipo di letteratura americana che faceva capo a Hemingway. La scoperta di Hamingway per me equivalse a quella dei Platters. Dovete sapere che quando avevo tredici anni Nilla Pizzi non mi dispiaceva e nemmeno Domenico Modugno, che allora faceva una trasmissione radiofonica in cui cantava canzoni come Lu pisci spada. Poi arrivò il rock and roll con tutti i miti americani. Fu proprio con la Betty che vivemmo tutti questi miti e quando ci siamo rincontrati erano ormai morti.
il sentirsi nuovi
le cose sognate e ora viste
Mi riferisco sempre all’America. Lei ha sposato un americano e anch’io sono corso negli Stati Uniti dietro un’americana. Dopo un mese sono ritornato in Italia. L’America non era propriamente la favola che immaginavo, il maccartismo era ancora imperante.
La mia America e la sua
diventate nella via
la nostra città tanto triste.
Questa è un’immagine un po’ così.
Carte e vento volan via nella stazione
Questo verso non è che mi faccia impazzire di gioia, è un po’ una caduta. Dovevo descrivere il momento in cui ci siamo salutati alla stazione ed è venuto fuori questo clicché.
freddo e luci accese forse per noi lì
Ecco il momento più tragico della canzone. È un verso molto brutto. Poi quel «lì» messo alla fine lo fa sembrare tanto un verso di Pallavicini, che pur di fare un verso tronco è capace di tutto.
ed infine in breve la sua situazione
Questo è carino, a me piace.
uguale quasi a tanti nostri film:
È vero, la situazione sembrava proprio quella di tanti film che avevamo visto.
come in un libro scritto male
lui s’era ucciso per Natale.
La storia è andata proprio così. Ho precisato «come in un libro scritto male» perché altrimenti poteva sembrare che fosse una mera invenzione.
Ma il triste racconto sembrava
assorbito dal buio
Ho scritto questo, io? L’aggettivo «triste» non è bello, onestamente.
povera amica che narravi
dieci anni n poche frasi
ed io i miei in una solo saluto
In un primo momento la canzone finiva a questo punto. Poi ho sentito il bisogno di concludere con qualche cosa, di tirare le somme su quello che aveva significato per me questa esperienza.
E pensavo dondolato dal vagone
«Cara amica, il tempo prende, il tempo dà
noi corriamo sempre in una direzione
ma qual sia e che senso abbia chi lo sa».
Questa immagine viene direttamente da: – «Il tutto infinito scorre infinitamente in una direzione, quale sia noi non lo potremo mai sapere», una frase di Husserl. Non mentirò dicendo che ho letto Husserl. Si tratta di una frase che ho letto su un manuale di Anceschi sulla poesia italiana del Novecento.
Restano i sogni senza tempo
le impressioni di un momento
Questo è detto in maniera un po’ poetica, ma in fondo è vero.
le luci nel buio
di case intraviste da un treno;
È una cosa che succede quando vedi un gruppo di case e ti domandi: «Chissà chi vive in quel posto?»
siamo qualcosa che non resta
frasi vuote nella testa
e il cuore di simboli pieno.
Questo è un momento in cui l’irrazionale prevale sul razionale. In fondo volevo dire che siamo gente che si agita e magari non sa dove stia andando.
Tratto da “Francesco Guccini” a cura di Vincenzo Mollica – Torino, Einaudi, 2000. Riportato sul sito www.francescoguccini.net