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02.Ortica

Un amore eterno durato un anno, una casa ormai vuota d’amore e già piena di ricordi. La mia donna è andata via.

Il vuoto di una casa che è stata teatro di un separazione. La passione giovanile e i progetti di una vita felice insieme, ridotti in cenere da una convivenza forse un po’ prematura a 20 anni. Lei ha portato via tutto. Le stanze che ci hanno visto tante volte ridere sono ora un luogo deserto e silenzioso, abitato da ombre. Vorresti andare via e ricominciare da un’altra parte ma qualcosa ti trattiene, forse l’eco lontana della sua voce.

Pensieri tetri ti accompagnano per giorni e semplicemente non hai voglia di fare niente, incalzato dai ricordi dolci e amari che ti scavano dentro.

Poi arriva il giorno che trovi la forza di liberare la mente da quegli “imballi vuoti” e così i ricordi smettono di fare male.

Non sono più ricordi. Non sono mai stati. E ricominci.

Ascolta “Ortica”

Dove sei tu

Uno sguardo al passato, il ricordo di una ragazza lasciata tanto tempo fa e che ora è una donna chissà dove.

Il primo amore non si scorda mai. E questo è un fatto. Ma perché? Sicuramente perché i ricordi della nostra giovinezza sono forse i più cari, e li custodiamo dentro di noi per tutta la vita. Ce li portiamo addosso e tornano alla mente nei momenti in cui sentiamo di più il bisogno di scaldare il cuore. Tornano a galla, con il volto della ragazza che amavamo, i luoghi e le persone insieme agli episodi della nostra storia. Riaffiorano l’impaccio della prima volta, il turbamento, le ansie da prestazione, la passione, la gelosia. Tutte le caratteristiche necessarie che accompagnano un profondo, inevitabile ed inconfessato progetto: la costruzione del proprio io. A distanza di anni possiamo senz’altro ammetterlo: il nostro primo amore eravamo noi stessi. L’affetto per l’altra persona, per assurdo, è forse più forte e sincero oggi che siamo in grado di attribuirle la riconoscenza che le dobbiamo per averci aiutato a crescere. Da qui il desiderio di sapere cosa ne è stato di lei, cosa ha fatto nella vita, dove si trova, se è felice, se ha famiglia, se si sente realizzata. Se ci incontrassimo, ci riconoscessimo nonostante i cambiamenti che il tempo ci ha imposto, e ci fermassimo a parlare (magari davanti a un caffè) avremmo veramente tanto da raccontarci.

Ascolta “Dove sei tu”

IL NUOVO ALBUM: CARAMELLE DA UNA SCONOSCIUTA

“Caramelle da una sconosciuta” contiene una parte della mia produzione musicale nell’arco di trent’anni.  

Racconta le mie storie, e storie di altri. Racconta sogni (Caramelle da una sconosciuta), timori (Fine del viaggio, Un lungo addio), l’intimità con la natura (La voce del mare).

Storie di abbandoni (Ortica) e di riconciliazioni (Dove sei tu),storie di madri (Album), e di padri e figli (E così sia, Foglie d’erba), storie di relazioni complicate (Tu non sbagli mai, Non chiamarmi amore, Donna robot) alla ricerca di una maturità artistica e umana difficile da raggiungere.

Essendo composizioni realizzate in anni diversi, il loro carattere e la loro natura sono a volte differenti, ma nell’insieme delineano tuttavia uno stile complessivo unitario che definirei “pop d’autore”.

Gli arrangiamenti, realizzati tutti negli ultimi due anni, sono in alcuni casi volutamente old fashioned  quasi a sottolineare la vena un po’ malinconica che pervade il disco.

 

Incontro

Incontro
di Francesco Guccini

Sul Web, Francesco Guccini, nel corso di un’intervista, analizza il testo della sua canzone. A lui la parola:

“Incontro”, più che una canzone malinconica, è tutto sommato una canzone ironica, nata dal fatto che a Modena c’era una mia amica che tra tutte le ragazze che conoscevo era la più emancipata. Aveva una madre e una nonna inglesi e si favoleggiava molto sulle sue origini. Malgrado avesse un nome italianissimo, per tutti era la Betty. Questa ragazza, con la quale non c’era stato niente di più che un’amicizia, quando avevo diciassette anni mi disse una frase che mi colpì: – Ti rendi conto che io ho ormai sedici anni e non ho ancora scopato? Magari domani muoio e non ho mai scopato -. Questa frase mi fece un certo effetto, perché devo confessare che neanche io a diciassette anni avevo mai goduto di questa leccornia. Sempre di lei mi ricordo che le coprivo alcune uscite. Le cose andavano così. La Betty mi telefonava e mi chiedeva di andarla a prendere la sera. Questo voleva dire che io mi presentavo in famiglia e dicevo: – Buonasera signora, lascia venire la Betty fuori con me? Uscivamo, e svoltato l’angolo c’erano dei maschi altissimi con delle spalle enormi che l’aspettavano. Io, insomma, ringraziavo e andavo via. Poi ci siamo persi di vista e dopo quindici anni mi ha telefonato per raccontarmi la sua tristissima storia.

E correndo mi incontrò lungo le scale
quasi nulla mi sembrò cambiato in lei

Questi versi sono bassamente romantici, lo devo ammettere. Ovviamente non è vero che ci siamo incontrati con lei che mi correva incontro lungo le scale. Però tutto sommato era carino, sembrava la sequenza di un film di Lelouch al rallentatore…

la tristezza poi ci avvolse come miele

Questo è un verso che mi piace moltissimo. Nasce da Suzanne di Leonard Cohen, quando dice «Il sole si riversa come miele». Nella mia canzone l’immagine del miele l’ho usata non come un elemento di dolcezza, ma come qualcosa che si appiccica addosso.

per il tempo scivolato su noi due.

L’andare indietro nel tempo, piangendosi addosso, dicendo – Ti ricordi…

Il sole che calava già
rosseggiava la città

«Rosseggiava» è discutibile, probabilmente c’era la necessita di riempire un certo buco metrico e in quel momento non è venuto fuori altro.

già nostra e ora
straniera e incredibile e fredda;

E qui va bene. Si parla di Modena, ovviamente, che allora era il nostro centro vitale. Poi è diventata un città diversa, una città che non si riconosce più.

come un istante déjà vu
ombra della gioventù

Potrebbe sembrare un verso troppo facile, invece è molto sincero. Perché abbiamo avuto tutti dei momenti che ti sembra di avere già vissuto. Ovviamente se tu scrivi «déjà vu» poi devi trovare una rima, allora è saltato fuori «ombra della gioventù».

ci circondava la nebbia.

La nebbia è una presenza.

Auto ferme ci guardavano in silenzio

È un verso che può andare bene, anche se non è molto audace.

vecchi muri proponevan nuovi eroi

Anche in “Giorno d’estate” c’è una frase più o meno simile, quindi si vede che è un mio cliché che ogni tanto salta fuori. Riguardo agli eroi, volevo dire che all’età di sedici-diciassette anni avevamo un certo tipo di miti come James Dean, i Platters o Elvis, che poi sono completamente cambiati. Mi piaceva l’idea di sottolineare il passaggio di tanti anni attraverso il segno di questi miti differenti.

dieci anni da narrare l’uno all’altro
ma le frasi rimanevan dentro in noi.

«Narrare» può andar bene, c’è anche una ragione metrica.

«Cosa fai ora? Ti ricordi?
Eran belli i nostri tempi!
Ti ho scritto è un anno
mi han detto che eri ancor via».

Qui non c’è proprio niente da dire, è la riproduzione di un dialogo.

E poi la cena a casa sua
la mia nuova cortesia
stoviglie color nostalgia.

Innanzitutto è bene spiegare perché «la nuova cortesia». La famiglia della Betty apparteneva a un ambiente sociale più alto del mio e aveva una casa molto più bella della mia. Tutto questo mi intimidiva molto, anche perché a quell’età non avevo certo una coscienza critica molto sviluppata. Trascorsi quindici anni da allora, ovviamente guardavo le cose in maniera diversa e la mia timidezza di quegli anni mi sembrava assolutamente ridicola. Ecco il perché della «mia nuova cortesia». Per quanto riguarda poi «le stoviglie color nostalgia» devo ammettere che ho rubato questo verso a Gozzano, un poeta che amo molto. Il verso in questione l’ho tradotto da La signorina Felicita ovvero la Felicità, quando dice: «E gli occhi fermi, l’iridi sincere | azzurre di una azzurro di stoviglia». Questa immagine mi era piaciuta. Mi ricordava di quando ero bambino in montagna e mangiavo in piatti di terracotta molto grossi che erano tutti ricamati in azzurro.

E le frasi quasi fossimo due vecchi
rincorrevan solo il tempo dietro a noi
per la prima volta vidi quegli specchi
capii i quadri i soprammobili ed i suoi.

Per «i suoi» intendo i genitori. Qui mi ricollego ancora al discorso della «mia nuova cortesia».

I nostri miti morti ormai
la scoperta di Hemingway

La mia generazione è figlia di quella dei Vittorini e dei Pavese, che hanno tradotto e diffuso un certo tipo di letteratura americana che faceva capo a Hemingway. La scoperta di Hamingway per me equivalse a quella dei Platters. Dovete sapere che quando avevo tredici anni Nilla Pizzi non mi dispiaceva e nemmeno Domenico Modugno, che allora faceva una trasmissione radiofonica in cui cantava canzoni come Lu pisci spada. Poi arrivò il rock and roll con tutti i miti americani. Fu proprio con la Betty che vivemmo tutti questi miti e quando ci siamo rincontrati erano ormai morti.

il sentirsi nuovi
le cose sognate e ora viste

Mi riferisco sempre all’America. Lei ha sposato un americano e anch’io sono corso negli Stati Uniti dietro un’americana. Dopo un mese sono ritornato in Italia. L’America non era propriamente la favola che immaginavo, il maccartismo era ancora imperante.

La mia America e la sua
diventate nella via
la nostra città tanto triste.

Questa è un’immagine un po’ così.

Carte e vento volan via nella stazione

Questo verso non è che mi faccia impazzire di gioia, è un po’ una caduta. Dovevo descrivere il momento in cui ci siamo salutati alla stazione ed è venuto fuori questo clicché.

freddo e luci accese forse per noi lì

Ecco il momento più tragico della canzone. È un verso molto brutto. Poi quel «lì» messo alla fine lo fa sembrare tanto un verso di Pallavicini, che pur di fare un verso tronco è capace di tutto.

ed infine in breve la sua situazione

Questo è carino, a me piace.

uguale quasi a tanti nostri film:

È vero, la situazione sembrava proprio quella di tanti film che avevamo visto.

come in un libro scritto male
lui s’era ucciso per Natale.

La storia è andata proprio così. Ho precisato «come in un libro scritto male» perché altrimenti poteva sembrare che fosse una mera invenzione.

Ma il triste racconto sembrava
assorbito dal buio

Ho scritto questo, io? L’aggettivo «triste» non è bello, onestamente.

povera amica che narravi
dieci anni n poche frasi
ed io i miei in una solo saluto

In un primo momento la canzone finiva a questo punto. Poi ho sentito il bisogno di concludere con qualche cosa, di tirare le somme su quello che aveva significato per me questa esperienza.

E pensavo dondolato dal vagone
«Cara amica, il tempo prende, il tempo dà
noi corriamo sempre in una direzione
ma qual sia e che senso abbia chi lo sa».

Questa immagine viene direttamente da: – «Il tutto infinito scorre infinitamente in una direzione, quale sia noi non lo potremo mai sapere», una frase di Husserl. Non mentirò dicendo che ho letto Husserl. Si tratta di una frase che ho letto su un manuale di Anceschi sulla poesia italiana del Novecento.

Restano i sogni senza tempo
le impressioni di un momento

Questo è detto in maniera un po’ poetica, ma in fondo è vero.

le luci nel buio
di case intraviste da un treno;

È una cosa che succede quando vedi un gruppo di case e ti domandi: «Chissà chi vive in quel posto?»

siamo qualcosa che non resta
frasi vuote nella testa
e il cuore di simboli pieno.

Questo è un momento in cui l’irrazionale prevale sul razionale. In fondo volevo dire che siamo gente che si agita e magari non sa dove stia andando.

Tratto da “Francesco Guccini” a cura di Vincenzo Mollica – Torino, Einaudi, 2000. Riportato sul sito www.francescoguccini.net

Dove sei tu

Dove sei tu – Testo e musica di Mario D’Alfonso

Il primo amore non si scorda mai. E questo è un fatto. Ma perché? Sicuramente perché i ricordi della nostra giovinezza sono forse i più cari, e li custodiamo dentro di noi per tutta la vita. Ce li portiamo addosso e tornano alla mente nei momenti in cui sentiamo di più il bisogno di scaldare il cuore.

Tornano a galla, con il volto della ragazza che amavamo, i luoghi e le persone insieme agli episodi della nostra storia. Riaffiorano l’impaccio della prima volta, il turbamento, le ansie da prestazione, la passione, la gelosia. Tutte le caratteristiche necessarie che accompagnano un profondo, inevitabile ed inconfessato progetto: la costruzione del proprio io.

A distanza di anni possiamo senz’altro ammetterlo: il nostro primo amore eravamo noi stessi.

L’affetto per l’altra persona, per assurdo, è forse più forte e sincero oggi che siamo in grado di attribuirle la riconoscenza che le dobbiamo per averci aiutato a crescere.

Da qui nasce il desiderio di sapere cosa ne è stato di lei, cosa ha fatto nella vita, dove si trova, se è felice, se ha famiglia, se si sente realizzata. È già nonna? Chissà. Se ci riconoscessimo nonostante i cambiamenti che il tempo ci ha imposto, se ci fermassimo a parlare (magari davanti a un caffè) avremmo veramente tanto da raccontarci.

 

Alfonsina y el mar

Alfonsina y el mar –  di Ariel Ramírez e Félix Luna

Figlia di un industriale della birra, Alfonsina Storni nacque nel 1892 in Canton Ticino, per poi trasferirsi con la famiglia in Argentina, all’età di quattro anni, dove i genitori aprirono una trattoria. L’andamento incerto degli affari la costrinse a lavorare fin da giovanissima come lavapiatti, cameriera, cucitrice e operaia. A proposito del suo nome diceva: “Mi chiamarono Alfonsina, che significa disposta a tutto”.
Nel 1912, mise al mondo il figlio Alessandro, senza essere sposata e senza rivelare il nome del padre naturale del bambino. La condizione di ragazza madre, il desiderio di proteggere l’intimità dei propri affetti, la necessità di affrontare da sola i problemi della vita, determinarono in lei un atteggiamento di aperta sfida e contrapposizione ai pregiudizi sociali e alla morale vigente.

Di lei si disse che fu una donna del popolo, una maestra, una socialista, diventata una star della poesia latino-americana, nota anche in Europa dove ha tenuto conferenze, tradotta in francese e in italiano, una donna pubblica, una femminista che si è battuta per i diritti delle donne, una donna ultramoderna.
Molti i racconti sulle sue ultime ore di vita: si dice che Alfonsina, giunta in solitudine in un piccolo albergo di Mar del Plata, abbia composto la poesia Voy a Dormir, e il giorno successivo si uccise entrando in mare e dirigendosi verso il largo, fino a quando le onde non la sommersero. Era il 1938 e aveva 46 anni.
Il suicidio della poetessa ispirò la canzone Alfonsina y el mar di Ariel Ramírez e Félix Luna.

Haydée Mercedes Sosa nasce il 9 luglio 1935 nella capitale della provincia di Tucumán, nel nord-ovest dell’Argentina, terza di cinque figli di una famiglia molto umile.
Simbolo della sua terra e della lotta per la pace e i diritti civili contro la dittatura, si definiva cantora popular.
Con l’instaurazione della dittatura la sua musica di denuncia inizia ad essere invisa ai militari. Vittima della censura, viene imprigionata durante un concerto a La Plata e nel 1979 è costretta all’esilio a Parigi e l’anno dopo a Madrid. Torna in Argentina il 18 febbraio 1982, alla vigilia della caduta del regime.

Mercedes Sosa oltre che una cantante eccezionale, è stata rappresentante per l’America Latina e le isole caraibiche nella Commissione per la stesura della Carta della Terra.
Muore nel 2009, a 74 anni, per una disfunzione renale. Tutto il Sudamerica manifesta il suo dolore: il governo argentino e quello peruviano dichiarano il lutto nazionale in tutto il paese.
“Madre di America”, “Pachamama” la voce della terra, Mercedes Sosa, era nota anche semplicemente come “La Negra”.

Bugiardo amore mio

Bugiardo amore mio – Testo e musica di Mario D’Alfonso

Ecco che quello che si riteneva impossibile diventa concreto, solido, contundente: la tua donna si allontana da te. Per quanto? Forse per sempre. Chi può dirlo. Confusione assoluta.

Questa possibilità non era contemplata quando tutto filava liscio e la giornata era scandita dai baci e dagli abbracci.

Ad un tratto realizzi che tu non sei diverso dagli altri, migliore, più fortunato, immune dai dispiaceri.

La donna che amavi ti ha lasciato. Ti ha proprio lasciato. Non ci puoi credere ma è così. E ti si stringe il cuore, e vorresti farti del male, magari morire.

Stai male giorni, settimane, sperando di incontrarla e nello stesso tempo temendo di incontrarla.

Poi, un giorno, ti svegli, la barba incolta, lo sguardo un po’ torvo, e uno stato di coscienza appena accennato, e decidi che la vita continua. Trovi la determinazione a reagire e ritrovi la volontà perduta.

A questo punto è a lei che vorresti fare del male per averti fatto soffrire. Ma non è così: l’amore che credevi morto è solo stordito. Respira ancora insieme a te.

Il chitarrista

Il chitarrista – Ivan Graziani

Ivan Graziani era nato a Teramo nel 1945 e ci ha lasciati il primo giorno del 1997 dopo aver lottato fino alla fine con un male incurabile che non ha rispettato il suo talento, la sua personalità e la sua simpatia.

La sensazione di quanti hanno guardato un po’ più a fondo nella sua musica, è che il cantautore e rocker (nonché disegnatore e fumettista) di Teramo non goda, in generale, di un apprezzamento adeguato ai suoi meriti.

Di lui i più ricordano e cantano ancora “Lugano addio” (“Le scarpe da tennis bianche e blu…”) del suo album “I lupi” del 1977, ma di Ivan ci rimane un’opera ricca fatta di testi assai particolari a livello di trame, protagonisti, metriche e linguaggio, e una vena melodica particolare.

Graziani era un chitarrista di notevolissime capacità e un cantante dalla voce inconfondibile che si era fatto strada facendo il turnista nelle sale di registrazione. Autore autentico ed originale non esitava a mettersi a nudo, alternando ironia e toni energici, malinconia e accenni di romanticismo.

Rocker “naturale” Graziani non si è mai allineato nella sua scrittura ai classici canoni del rock e del pop.
Ora che se n’è andato speriamo che effettivamente il Signore abbia un occhio di riguardo per il suo chitarrista.

Nella foto Nino Dale & His Modernists. Alla destra, Ivan Graziani che fu chiamato a suonare nel gruppo fin dall’età di 14 anni.

Gli abitanti della notte

Gli abitanti della notte – Testo e musica di Mario D’Alfonso

Non ricordo di aver mai abitato lo spazio della notte. Sono stato sporadicamente un viandante frettoloso, un forestiero di passaggio.
I miei ritmi circadiani si sono adattati da tempo alla mia propensione a fare della notte il luogo del riposo e della quiete.
Poiché per me la notte evoca spazi chiusi, luci attenuate, silenzio e una totale assenza di attività appena interrotta da un eventuale fuggevole sguardo ammirato alla luna quando è piena, ho immaginato esistenze alternative alla mia con caratteristiche del tutto diverse.
Nulla conosco di queste vite e pertanto l’immaginazione ha potuto pellegrinare in un territorio sconosciuto imbastendo situazioni a partire da pochi elementi facili da prevedere: le luci, l’asfalto bagnato, le lattine vuote e via così.
Il popolo della notte ha semplicemente generato in me sensazioni contrastanti che ho cercato di descrivere nel testo.
Tutto il resto si snoda come il susseguirsi delle scene di un film o meglio di un sogno a cui non saprei attribuire il carattere della commedia o del dramma, in quanto, in realtà, non ha né capo né coda.

Redemption Song

Redemption Song – Bob Marley

Il brano è l’ultima traccia dell’album Uprising del 1980.

A differenza di altre musiche di Bob Marley Redemption Song è una canzone folk, e ci ricorda un po’la musicalità di Bob Dylan, effetto forse accentuato dall’esecuzione voce e chitarra e dall’assenza di tracce di reggae.
Redemption Song è anche il testamento spirituale di Bob Marley. Infatti quando scrisse la canzone, all’incirca nel 1979, a Marley era già stato diagnosticato il cancro che lo avrebbe condotto alla morte.

La prima strofa fa riferimento a una storia dell’Antico Testamento, quella di Giuseppe, che venne prima gettato in una cisterna dai fratelli e poi venne venduto come schiavo, ma dopo essere stato reso più forte da Dio divenne viceré dell’Egitto.
I primi versi si riferiscono ovviamente alla tratta degli schiavi in Africa e, nei versi successivi viene brevemente richiamata la modalità di cattura che ha portato nel nuovo mondo gli antenati dei neri d’America, tra cui i gli antenati di Marley in Giamaica.
La canzone, come gran parte delle canzoni di Marley, è centrata sulle sue convinzioni religiose legate al Rastafarianesimo, ma la parola “redenzione” in questo caso viene utilizzata con più significati: liberazione dal peccato, ma anche liberazione dalla condizione di schiavitù e liberazione dalle catene mentali auto-imposte.

Abbiamo ancora bisogno di canzoni di redenzione, magari da cantare tutti insieme, perché nessuno si salva d solo.

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